Anteprima 'Prometeo' giugno 2016
da I linguaggi della musica
classica contemporanea : reportage da un mondo invisibile - Terza parte ed ultima parte (di 3)
Una serie di domande scomode
Abbiamo cominciato questo ‘reportage’ sul mondo
della musica classica contemporanea (dicembre 2015) sottolineando come, sebbene
ci fosse « un tempo
in cui la musica classica faceva notizia e guadagnava le prime pagine dei
giornali», nel corso della seconda metà del secolo scorso essa sia andata
gradualmente scomparendo dal campo visivo della società. Tuttavia, abbiamo
detto anche che, contrariamente a quanto si possa pensare, non solo i
protagonisti delle avanguardie del secondo Novecento hanno continuato
ininterrottamente a scrivere musica e ad essere eseguiti (uno di questi, Pierre
Boulez, è scomparso recentemente, dopo essere rimasto attivo fino all’ultimo),
ma hanno creato delle solide scuole, e migliaia e migliaia di giovani hanno
deciso di dedicarsi alla scrittura musicale dal secondo dopo guerra ai nostri
giorni.
Si assiste quindi ad uno stridente contrasto tra
un mondo decisamente vivo, operoso e soprattutto popoloso, ed una società che
non sembra voler prendere coscienza della sua esistenza. Al contrario, quando
ne viene casualmente a contatto, non dimostra spesso che diffidenza e
disistima.
A questo punto allora mi sembra che non si possa
più eludere una domanda fondamentale: esiste ancora nel nostro paese uno spazio
per la musica classica contemporanea? E soprattutto, esiste davvero ancora il
mestiere del ‘compositore’, o meglio ‘quel tipo di compositore’ che scrive
musica per orchestra e da camera, lavori di teatro musicale e per la danza?
Possiede questo tipo di professione un
senso nell’Italia contemporanea, un posto ed un ruolo sociale, per quanto
invisibile ed estremamente ristretto e periferico?
Questa domanda in realtà ne porta con sé altre
due ancora più importanti: qual è oggi il ruolo della cosiddetta ‘musica d’arte’
(e della cultura più in generale) nella società contemporanea (ammesso che ve
ne sia ancora uno)? E cosa oggi può
definirsi ‘arte’ (se tale definizione possiede ancora un qualche pur minimo
senso)? Naturalmente è impossibile affrontare in questo ambito quesiti di tale
portata, ma il cuore della questione sta proprio nel modo in cui ciascuno di
noi risponde a queste domande.
Ho
rivolto queste domande a Claudio Rastelli (Rimini 1963), compositore e direttore
artistico degli Amici della musica di Modena e dell’AdM Ensemble, formatosi
alla scuola rigorosa della dodecafonia italiana (che fa capo al grandissimo
Luigi Dallapiccola) con Camillo Togni, e che negli anni ha sviluppato un suo
linguaggio estremamente interessante e musicalissimo :
Il senso delle domande dipende totalmente dall'accezione che
si dà (e si darà) alle due parole-chiave coinvolte: musica classica
contemporanea (o come andrebbe chiamata o come si chiamerà) e compositore. Da
molto tempo non riusciamo a dare definizioni univoche, o almeno abbastanza
soddisfacenti dei due termini. Non credo sia il caso che mi avventuri a cercare
la definizione "giusta", anche perché la data di scadenza di questo
tipo di definizioni è sempre più ravvicinata. Ma alla fine i compositori ci
sono e la musica "si fa". La "musica classica
contemporanea" esiste finché esistono i "compositori" e credo
esisteranno sempre.
Qualsiasi tipo di musica esiste se c'è un "compositore"; anche i sopravvissuti "esistono" e rappresentano comunque qualcosa di "riconoscibile". Basta qualcuno che trovi gli elementi per riconoscere un'identità in una musica, o almeno una fisionomia, il termine più adatto è forse il più generico: un senso. Se fosse una sola persona al mondo a riconoscerne il senso questa dovrebbe essere almeno il compositore. Sono certo che esistono compositori che non trovano senso in quello che fanno. Essere "riconosciuti" socialmente invece non fa parte del "mestiere di compositore". Non so se ne fa parte la ricerca di dialogo con l'ascoltatore, ma di sicuro stimola la fantasia e la chiarezza, e questo aiuta il compositore (e l'ascoltatore) a vivere meglio.
Qualsiasi tipo di musica esiste se c'è un "compositore"; anche i sopravvissuti "esistono" e rappresentano comunque qualcosa di "riconoscibile". Basta qualcuno che trovi gli elementi per riconoscere un'identità in una musica, o almeno una fisionomia, il termine più adatto è forse il più generico: un senso. Se fosse una sola persona al mondo a riconoscerne il senso questa dovrebbe essere almeno il compositore. Sono certo che esistono compositori che non trovano senso in quello che fanno. Essere "riconosciuti" socialmente invece non fa parte del "mestiere di compositore". Non so se ne fa parte la ricerca di dialogo con l'ascoltatore, ma di sicuro stimola la fantasia e la chiarezza, e questo aiuta il compositore (e l'ascoltatore) a vivere meglio.
Ho voluto sentire poi anche il parere di un esecutore, Emanuele
Arciuli (Galatone, 1965), un pianista tra i più apprezzati nel panorama della musica
contemporanea e non solo, esperto dei repertori della musica americana, ai
quali ha dedicato anche un libro (Arciuli, 2010) :
Credo che lo spazio per la musica colta,
che sia contemporanea o del passato, in Italia sia ridotto a poche briciole;
parlo di uno spazio vero, fatto di interesse e sensibilità autentici per questa
musica. Oggi il dramma non è solo rappresentato dalla distanza della musica
contemporanea rispetto al grande pubblico, ma dalla sostanziale estraneità di
tale pubblico anche nei confronti di Schumann, Schubert, Brahms, le cui musiche
sono percepite come remote, riferendosi a un mondo lontano da quello attuale.
Il problema ulteriore è dato dal fatto
che, qui in Italia, la musica contemporanea è pesantemente condizionata da
dinamiche che poco hanno a che fare con la musica pura, per cui - a lungo - si
è considerata contemporanea solo la musica votata alla ricerca e alla
sperimentazione, escludendo stili e linguaggi altrettanto legittimamente
definibili come contemporanei perché fortemente connessi al mondo attuale e
alle sue complesse problematiche.
Lo spazio per i compositori è molto
risicato, dunque, nonostante la quantità di musicisti che si dedicano alla
scrittura oggi sia oggi elevatissima e meriterebbe spazi molto maggiori.
C'è dunque scoramento, da parte di tanti ottimi compositori che, semplicemente,
non riescono a dare voce alle proprie idee, e questo è davvero triste.
Alcuni compositori riescono tuttavia a
trovare spazi e riconoscimenti, sono eseguiti, sono presenti nei festival,
nelle stagioni sinfoniche e persino d'opera, scrivono libri, conducono
trasmissioni televisive e radiofoniche, possono incidere sulla società. In
definitiva, dunque, non è il compositore ma "quel" compositore, che -
quasi indipendentemente dal lavoro che svolge - può avere il privilegio di
lanciare dei messaggi che siano poi recepiti da un pubblico, piccolo o grande
che esso sia.
Infine,
di tutt’altro segno la testimonianza di Fabrizio De Rossi Re (Roma, 1960),
compositore di scuola romana (allievo di un allievo di Petrassi, Mauro
Bortolotti), uno dei più noti ed eseguiti della sua generazione:
La figura del compositore di musica non è mai stata
centrale nel tessuto sociale, salvo rare eccezioni dove il compositore ha
rappresentato, a prescindere dal valore oggettivo della sua musica, o da quanto
la sua musica piacesse alla gente, un simbolo politico, sociale ed economico di
rilievo.
Il distacco della gente comune dalla musica “di
ricerca” è un fenomeno che c’è sempre stato. Era meno evidente in passato
semplicemente perché una stretta cerchia di persone, inserite in uno strettissimo
ed elitario sistema economico e culturale,
poteva usufruire della musica di ricerca, eseguita nelle corti, o nei
salotti. Non so quanto la
comprendessero, ma l’amavano perché rappresentava il loro benessere. Tutti gli
altri non suonavano e non sentivano musica. Non sentivano la necessità di
ascoltare la musica.
Il mestiere del compositore è quanto mai vivo. Solo
che assume sembianze assai diverse dal modello di compositore che noi, forse
come ultima generazione, siamo abituati a concepire. La musica nel nostro tempo
è presente in ogni luogo e in ogni forma. La musica svolge, come mai in
passato, tantissime funzioni sociali.
Esiste musica per la mente, per l’amore, per viaggiare, per la notte,
per l’anima etc.. Paradossalmente chi
produce e scrive musica oggi è infinitamente più ascoltato che nel passato.
La musica accompagna continuamente la vita di tutti,
e dunque chi la scrive ( o chi la suona) è molto più inserito nella vita
sociale, di quanto lo fosse in passato. Attraverso Internet, si può ascoltare
qualsiasi musica in qualsiasi momento, e in tutte le latitudini. Tuttavia ,
basta entrare in un negozio di musica ( esistono ancora ?) per capire che il distacco, il rifiuto della
gente, dalla musica contemporanea, ma direi dalla musica classica in genere, è
un problema drammatico e oggettivo.
La musica oggi enormemente diffusa, e raggiungibile
da tutti anche attraverso il proprio telefono, ha perso però la sua componente
sacrale che un tempo possedeva, certamente la possedeva in maniera fittizia e
talvolta altezzosa, ma aveva il pregio, che durava da secoli, di far
considerare alla gente la musica qualcosa di importante.
I miei genitori
quando ero bambino, si rivolgevano ai miei insegnanti di musica, come se
fossero stati sacerdoti di un tempio meraviglioso, e conoscessero attraverso lo
studio e la concentrazione i segreti del
mondo sonoro.
Oggi, chi di noi insegna in conservatorio, sa
benissimo che ci troviamo di fronte, nella migliore delle ipotesi, a dei
genitori che cercano di capire se lo studio della musica possa avere per il
proprio figlio, un valore professionale spendibile, e che il corso non debba
distrarlo troppo dalla “vera” vita che dovranno affrontare in futuro.
Io personalmente non ho mai sentito troppo questo
problema della marginalità, per una serie di fattori : ho sempre lavorato fin
da ragazzo nella musica di consumo. Avendo una formazione jazzistica ho scritto
e suonato musiche per le più varie trasmissioni televisive, sceneggiati,
documentari etc.. Questa esperienza viva e artigianale che ti mette in
relazione al mondo, e ti fa sentire di avere una qualche utilità in esso, ha il
pregio di sostenerti anche quando scrivi la più audace musica di ricerca, perché ti vaccina contro il pericolo di
scrivere musica in maniera solipsista, disprezzando il gusto “banale” della
gente ( è colpa sempre degli altri..),
che è un tipico atteggiamento di molti compositori amareggiati e delusi
dal mondo, che si sentono dei sopravvissuti e che scelgono di scrivere la loro
musica in una turris eburnea apparentemente raffinatissima, ma che in realtà
nasconde molte volte una profonda incapacità di relazionarsi, musicalmente e
umanamente, con il mondo circostante che inesorabilmente cambia, e cambia ad
una velocità che era impensabile nei secoli precedenti.
(estratto della terza parte dell'articolo che uscirà in giugno - è ora in edicola la seconda parte)